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“Chiamami col tuo nome” – L’amore tra le pieghe del tempo

La storia si svolge nell’estate del 1983, in un’incantevole villa nella campagna lombarda, dove il diciassettenne Elio Perlman (Timothée Chalamet) trascorre le vacanze tra libri, musica e spensieratezza adolescenziale. L’arrivo di Oliver (Armie Hammer), uno studente americano che lavora con il padre di Elio, sconvolge il suo mondo: all’inizio c’è una distanza fatta di sguardi sfuggenti, piccoli gesti e frasi non dette, ma pian piano la tensione si trasforma in passione irrefrenabile, un sentimento tanto forte quanto fragile.

Guadagnino racconta l’amore con una delicatezza straordinaria: non ci sono scene madri o dichiarazioni urlate, ma gesti minimi, tocchi sfiorati, silenzi densi di significato. La cinepresa accarezza i volti dei protagonisti, segue i loro movimenti con pudore e lascia spazio ai non detti. L’ambientazione è un vero e proprio personaggio: il sole brucia la pelle, i campi di pesche si tingono di oro e i pomeriggi sembrano infiniti, come l’amore di un’estate che si vorrebbe non finisse mai.

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Ma Chiamami col tuo nome non è solo la storia di una passione estiva: è un film che parla di crescita, desiderio e perdita. Elio e Oliver vivono un amore puro, ma anche segnato dall’impossibilità di essere vissuto oltre il breve spazio di un’estate. E quando arriva l’autunno, non restano che ricordi e un dolore dolce e insopportabile. In questo senso, il monologo finale del padre di Elio (Michael Stuhlbarg) è uno dei momenti più toccanti del film: un invito a non reprimere il dolore, a viverlo appieno, perché anche la sofferenza è il segno di qualcosa di meraviglioso che è esistito.

E poi c’è la scena finale: un lungo primo piano su Elio, seduto davanti al camino, mentre le lacrime scorrono silenziose sulle note di Visions of Gideon di Sufjan Stevens. Un finale che non ha bisogno di parole, perché dice tutto con uno sguardo: la nostalgia, la consapevolezza, l’amore che cambia forma ma non svanisce.

Chiamami col tuo nome è una poesia in immagini, un film che racconta l’amore nella sua forma più autentica: un sentimento che non ha bisogno di etichette, che esiste al di là del tempo e che, proprio perché destinato a finire, è ancora più prezioso.

Ci sono film che raccontano una storia e poi ci sono film che ti trascinano dentro un sentimento. Chiamami col tuo nome (2017), diretto da Luca Guadagnino, appartiene a questa seconda categoria: una pellicola che non si guarda, ma si vive sulla pelle, attraverso il sole dell’estate italiana, il suono delle cicale e la dolce malinconia di un amore destinato a trasformarsi in ricordo.

La storia si svolge nell’estate del 1983, in un’incantevole villa nella campagna lombarda, dove il diciassettenne Elio Perlman (Timothée Chalamet) trascorre le vacanze tra libri, musica e spensieratezza adolescenziale. L’arrivo di Oliver (Armie Hammer), uno studente americano che lavora con il padre di Elio, sconvolge il suo mondo: all’inizio c’è una distanza fatta di sguardi sfuggenti, piccoli gesti e frasi non dette, ma pian piano la tensione si trasforma in passione irrefrenabile, un sentimento tanto forte quanto fragile.

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Guadagnino racconta l’amore con una delicatezza straordinaria: non ci sono scene madri o dichiarazioni urlate, ma gesti minimi, tocchi sfiorati, silenzi densi di significato. La cinepresa accarezza i volti dei protagonisti, segue i loro movimenti con pudore e lascia spazio ai non detti. L’ambientazione è un vero e proprio personaggio: il sole brucia la pelle, i campi di pesche si tingono di oro e i pomeriggi sembrano infiniti, come l’amore di un’estate che si vorrebbe non finisse mai.

Ma Chiamami col tuo nome non è solo la storia di una passione estiva: è un film che parla di crescita, desiderio e perdita. Elio e Oliver vivono un amore puro, ma anche segnato dall’impossibilità di essere vissuto oltre il breve spazio di un’estate. E quando arriva l’autunno, non restano che ricordi e un dolore dolce e insopportabile. In questo senso, il monologo finale del padre di Elio (Michael Stuhlbarg) è uno dei momenti più toccanti del film: un invito a non reprimere il dolore, a viverlo appieno, perché anche la sofferenza è il segno di qualcosa di meraviglioso che è esistito.

E poi c’è la scena finale: un lungo primo piano su Elio, seduto davanti al camino, mentre le lacrime scorrono silenziose sulle note di Visions of Gideon di Sufjan Stevens. Un finale che non ha bisogno di parole, perché dice tutto con uno sguardo: la nostalgia, la consapevolezza, l’amore che cambia forma ma non svanisce.

Chiamami col tuo nome è una poesia in immagini, un film che racconta l’amore nella sua forma più autentica: un sentimento che non ha bisogno di etichette, che esiste al di là del tempo e che, proprio perché destinato a finire, è ancora più prezioso.

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