Generale

Donne di Conforto Coreane

Forse in pochi sanno che fino al 1945 la Corea è stata occupata dalla dominazione giapponese. Ancor meno noto è però uno dei peggiori crimini commessi dal popolo giapponese durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale, crimine che solo oggi sta finalmente venendo riconosciuto e reso noto sia nel continente asiatico che nel resto del mondo. Si tratta delle cosiddette “donne di conforto”.

Le donne di conforto furono donne, ragazze e persino bambine, prese e portate via dalle loro case e dalle loro famiglie contro la loro volontà, per fornire servizi sessuali alle truppe dell’esercito imperiale giapponese. Una volta rapite, venivano stipate in “stazioni di conforto” (chiamati Lanjo). Nell’intento giapponese queste stazioni servivano ad alleviare i fattori di stress della guerra fornendo sesso alle loro truppe, a spese delle numerose vittime che si vedevano costrette a soddisfare uomini di ogni età senza pause, in pessime condizioni igieniche e sanitarie, senza un attimo di pace nemmeno di fronte a svenimenti o danni fisici delle giovani, al punto di rischiare (e raggiungere) troppo spesso la morte.
Oggi si conta che le vittime di questo sistema siano state 200.000, anche se le stime variano da 20.000 a quasi 500.000.

La guerra nel Pacifico terminò il 15 agosto 1945, ma le donne di conforto che sopravvissero non poterono tornare a casa facilmente. È noto che molte donne rinunciarono all’idea di tornare per un sentimento di vergogna, decidendo di rimanere in terra straniera per il resto dei loro giorni. Per esempio, tra le donne coreane portate in Cina e rimaste lì dopo la guerra, alcune sono tornate in Corea del Sud solo negli anni ’90.

Inoltre, in molti casi coloro che tornavano a casa riportavano gravi ferite e, segnate e traumatizzate dall’esperienza, finirono per vivere una vita miserabile, incapaci di dimenticare le crudeltà del passato. Molte soffrirono di disabilità fisiche e malattie veneree, e non furono in grado di avere figli. Altre non potevano sposarsi a causa del marchio di donne disonorate. E coloro che alla fine si sposarono, spesso dovettero nascondere il loro passato, incapaci di raccontare agli altri il dolore che provavano nei loro cuori.

Per anni la stessa Corea ha voluto tacere gli orrori di questi crimini, cercando di cancellare e di mettere a tacere le storie di queste donne, le quali per prime, nella maggior parte dei casi, cercarono di dimenticare il mondo delle stazioni di conforto. Chi sopravvisse si ritrovò a vivere per più di mezzo secolo dopo la fine della guerra soffrendo in modo diverso le pene del periodo della loro schiavitù sessuale.

Infatti i documenti sul sistema furono distrutti dai funzionari giapponesi, e la storia della schiavitù delle donne fu minimizzata come uno sgradevole residuo di un passato che la gente avrebbe preferito dimenticare. E così fu fino agli anni ’80, quando alcune donne iniziarono a condividere le loro storie. Nel 1987, dopo che la Repubblica della Corea del Sud divenne una democrazia liberale, le donne iniziarono a discutere pubblicamente delle loro sofferenze, e nel 1990, la questione divampò in una disputa internazionale quando la Corea del Sud criticò la negazione degli eventi da parte di un funzionario giapponese. Negli anni successivi sempre più donne si fecero avanti per dare testimonianza, riuscendo ad ottenere nel 1993 la “Dichiarazione Kono” (dal nome dell’allora capo segretario di gabinetto Yohei Kono), con la quale il governo giapponese riconosceva finalmente le atrocità commesse e il coinvolgimento delle proprie autorità.

La Corea del Sud ha raggiunto un accordo con il Giappone per risolvere la controversia sulle donne di conforto nel 2015, quando il Giappone si è scusato ufficialmente con le vittime e ha fornito 1 miliardo di yen (9 milioni di dollari) a un fondo per aiutarle.

Diversi artisti contemporanei hanno poi sentito l’esigenza di dare il loro contributo, spinti non solo dalla lotta comune contro l’ingiustizia di tutto questo, ma anche dal senso di responsabilità. Nacquero così le Statues of Peace, che rappresentano ragazze sedute, solitamente in abiti tradizionali coreani, con capelli tagliati in modo netto e brusco, come i loro rapporti con i genitori.  I talloni sono alzati per simboleggiare la loro precarietà, un uccellino sulla spalla la libertà sottratta. Hanno lo sguardo determinato, fisso sul luogo simbolo della presenza giapponese all’estero. Chiedono silenziosamente il riconoscimento dello sfruttamento delle giovani donne coreane e della responsabilità del Giappone. Protestano contro la reticenza delle autorità a scusarsi e contribuire al risarcimento delle vittime. Ne esistono più esemplari in tutto il mondo, e molte sono addirittura installate di fronte alle ambasciate giapponesi all’estero, una su tutte quella di Seoul.

Ma queste state sono state anche al centro di scandali e tensioni: proprio la scultura Eterna espiazione installata nell’orto botanico di Pyeongchang, vicino Seoul, ha fatto scoppiare infatti un caso internazionale. L’opera ritrae un uomo nell’atto di inchinarsi in segno di colpevolezza di fronte a una donna. La polemica è nata perché a Tokyo è stato ritenuto che l’uomo inchinato sia molto somigliante al primo ministro giapponese Shinzo Abe, e quindi un’immagine, ancora, troppo forte da accettare.

Loading

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *