Quote al femminile
Siamo tutti consapevoli della minor presenza del genere femminile nei luoghi di potere. Quindi in tutte le adunanze che prendono decisioni importanti a livello statale, societario, ma anche negli ospedali, nell’esercito e in tutte le strutture pubbliche o private. Si percepisce ancora forte l’odore del pregiudizio verso le donne, nel mondo della cultura, dell’arte, della scienza. Si ha il sospetto che anche gli “orientamenti” dei professori del liceo contribuiscano in parte ad alimentare il preconcetto. Sono ancora troppo poche, infatti, le giovani iscritte ai corsi universitari di ingegneria e informatica. Rispetto a quelle comuni come lettere, giurisprudenza, filosofia o scienze politiche.
Diversi sono stati i tentativi fatti nel tempo per colmare questi divari. Per favorire ad una moltitudine di donne l’accesso ai vertici di quelle professioni, di quelle attività, nelle quali la personalità femminile potrebbe certamente dare un valido apporto.
Non vi è dubbio che le donne sappiano primeggiare in qualunque attività vogliano intraprendere. E credo che oggi nessuno possa confutare questa certezza.
Tuttavia il problema esiste e ne sono prova le commissioni sulle pari opportunità che fioccano in vari contesti pubblici e privati. Ad es. il Comitato e la Consigliera Nazionale di Parità, la Rete delle Consigliere di Parità, vincolando anche i consigli di amministrazione. Ma anche i collegi sindacali delle società quotate in borsa e di quelle a controllo pubblico.
Anche in politica si è tentato di introdurre le “quote rosa” prevedendo che, in alcuni casi, nessuno dei due generi presenti nella lista dovesse superare i 3/4 dei candidati. Tuttavia, com’è noto, essendo i vertici a prevalenza maschile, i partiti hanno continuato a candidare gli uomini nei collegi di rilievo e le donne nei meno importanti.
Sono note le riserve che parte del mondo femminile ha avanzato verso le “quote rosa”, vissute come un indebito vantaggio per accedere ai luoghi di potere, quelli che contano.
La mia esperienza di avvocato matrimonialista, osservatore privilegiato, poiché assisto e rappresento in giudizio in egual misura donne e uomini, mi porta però a ritenere che, posti di fronte al medesimo quesito, un soggetto maschile e uno femminile, troveranno soluzioni spesso diverse.
Non necessariamente l’una migliore dell’altra, ma con un approccio differente.
Non sono in grado di dire se tale risultato abbia una componente biologica o neurologica.
Ma certamente ne ha una sociologica, ambientale, determinata dal luogo, dal tempo e dalla qualità della cultura e dell’educazione ricevuta.
Di fatto, la capacità di analisi e di sintesi, la possibilità di catalizzare l’esperienza fatta, la reazione alla crisi, sono diverse tra un uomo e una donna.
È in atto un processo di rinnovamento, di facilitazione all’accesso della componente femminile in taluni ambienti. Tuttavia, guardando al passato mi chiedo, quanto dovremo attendere perché possano risultare evidenti dei cambiamenti e appaia significativo l’apporto delle donne in tutti i settori della società.
Forse mille, duemila anni?
Le “quote femminili” credo non siano da demonizzare, se possano accelerare questo processo, nel rispetto ovviamente della qualità, della professionalità, del merito e della esperienza.
Non v’è dubbio, però, che se alle donne continuerà ad essere impedito un accesso significativo a talune professioni, non sarà possibile per loro maturare un’esperienza. Che magari consenta l’occasione di un vero e proprio confronto tra l’apporto maschile e quello femminile, alla soluzione dei problemi.
Se, per accedere a certi ruoli di vertice, i “giudici” saranno sempre in prevalenza uomini, difficilmente sarà possibile raggiungere la tanto agognata parità di genere.