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“Hulk” (2003) – L’incredibile peso dell’identità

Prima che l’Universo Marvel si colorasse dei toni scintillanti e spettacolari del MCU, Ang Lee nel 2003 decise di affrontare Hulk con una lente molto più intima, quasi drammatica, psicologica. Il risultato? Un film atipico, profondo, e spesso sottovalutato, che tenta di scavare nel cuore di una creatura che distrugge tutto ciò che lo circonda — ma che, in fondo, vorrebbe solo essere lasciata in pace.

Trama: tra scienza e tragedia

Il film segue Bruce Banner, brillante genetista alle prese con esperimenti sul potenziamento del corpo umano tramite la manipolazione del DNA. Durante un incidente in laboratorio, viene esposto a una dose letale di raggi gamma. Ma non muore. Al contrario: qualcosa dentro di lui si risveglia. Quando la rabbia prende il sopravvento, Bruce si trasforma in una gigantesca creatura verde: Hulk.

Parallelamente si scopre un passato familiare doloroso, segnato da un padre scienziato ossessionato dalla sperimentazione genetica (David Banner), che ha manipolato il DNA del figlio ancor prima della nascita. È proprio in questo intreccio tra esperimenti, traumi e memoria repressa che il film trova il suo cuore narrativo. Hulk non è solo un mostro, ma l’incarnazione fisica di un dolore mai elaborato.

Personaggi: anime spezzate in cerca di pace

  • Bruce Banner (Eric Bana) è l’epitome del conflitto interiore. Calmo, taciturno, quasi anestetizzato nelle emozioni… finché non scatta qualcosa. La sua performance è tutta giocata sulla tensione interna: il vero mostro non è fuori, ma dentro.
  • Betty Ross (Jennifer Connelly), scienziata e vecchia fiamma di Bruce, è l’unico contatto umano che riesce ad alleviare la furia. È il contraltare emotivo del protagonista, la voce che cerca di calmarlo, ma anche la donna che subisce il peso delle sue ombre.
  • David Banner (Nick Nolte), il padre, è un villain sui generis: un uomo spaventoso non per la forza, ma per l’ossessione. Il suo rapporto con Bruce è contorto, disturbante, quasi shakespeariano.

Significato: la rabbia come eredità

Ang Lee usa il fumetto per parlare di trauma intergenerazionale, repressione emotiva e identità spezzate. Hulk non è l’eroe che salva il mondo, ma una creatura che incarna la rabbia di chi ha subito troppo, troppo a lungo. È il bambino ferito che esplode quando non trova più parole per spiegarsi. È la metafora del controllo perduto, della solitudine di chi non riesce a gestire il dolore.

Il regista trasforma un fumetto di supereroi in una tragedia esistenziale, con echi di Frankenstein, Freud e tragedia greca. E nonostante la lentezza del ritmo o alcune scelte visive discutibili, il messaggio è potente e chiaro: il vero nemico di Hulk non è l’esercito, ma il passato.

Stile e regia: tra fumetto e cinema d’autore

Visivamente, Ang Lee sperimenta. Divide lo schermo in pannelli, come se sfogliassimo un fumetto animato. L’idea è ambiziosa, anche se non sempre efficace: alcuni la trovano immersiva, altri disorientante. Ma è innegabile che l’intento fosse quello di unire linguaggi, portare la grammatica visiva della carta nel linguaggio cinematografico.

Le trasformazioni di Hulk, grazie al lavoro della Industrial Light & Magic, all’epoca erano all’avanguardia. Il contrasto tra il deserto immenso e la furia verde del protagonista regala momenti spettacolari, ma anche malinconici. Hulk corre, salta, distrugge, ma non appartiene a nulla. Il paesaggio lo riflette: ampio, vuoto, impietoso.

Conclusione: un esperimento coraggioso

Hulk (2003) non è un film per tutti, e forse non lo è mai stato. È un cinecomic che rifiuta la leggerezza e l’azione pura, scegliendo invece la riflessione, il dolore, la lotta interna. Nonostante i difetti di ritmo e alcune scelte stilistiche divisive, rimane un’opera coraggiosa, forse troppo avanti per il suo tempo.

Se oggi i supereroi sono diventati intrattenimento seriale, Hulk di Ang Lee è lì a ricordarci che dietro ogni maschera, ogni potere, ogni trasformazione, c’è una domanda più umana che mai: chi sono io davvero quando perdo il controllo?

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