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Lingua e questioni di genere

La lingua come specchio della società

La lingua è un’attività umana e sociale che, in quanto tale, muta e si evolve, in coerenza con i cambiamenti storici e culturali che investono il contesto in cui viene parlata. 

Fino a pochi decenni fa, la maggior parte delle professioni di prestigio o dei ruoli di potere era dominata dagli uomini. Di conseguenza, il linguaggio attingeva a termini declinati quasi esclusivamente al maschile. 

Con l’aumento della presenza delle donne nel mondo del lavoro, però, la lingua ha iniziato a riflettere la nuova realtà che si andava via via spianando, cercando nuove forme che potessero rappresentarla al meglio.

Il femminile nelle professioni, ad esempio, è un tentativo di dare visibilità e riconoscimento alle donne che ricoprono quei ruoli. 

Non si tratta solo di un adattamento grammaticale, ma di una scelta simbolica che mira a rompere con una tradizione di invisibilità, linguistica e sociale. 

Una resistenza culturale

Uno dei principali ostacoli all’adozione delle forme femminili nelle professioni è la resistenza culturale. 

Parole come professora, avvocata, ministra, deputata, sembrano stonare e, per questo motivo, sono spesso segnalate come errore.

In realtà, il sistema grammaticale le ammette. Non le considera scorrette.

Qui, più che di una questione linguistica, si tratta di una riserva ideologica.

Molte persone, per abitudine o per preferenza, continuano a utilizzare il maschile sovraesteso, ovvero il maschile come forma universale. Questo riflette l’idea che il maschile possa essere neutrale e inclusivo, una posizione che però non tiene conto della crescente sensibilità verso le questioni di genere e della necessità di rendere visibili le differenze.

Continuare a chiamare una donna ministro o avvocato può essere percepito come un rifiuto di riconoscere il suo ruolo.

Vi è anche da dire che forme come professoressa, dottoressa, presidentessa siano, diciamo, inadeguate.

Storicamente, il suffisso -essa è stato, infatti, utilizzato per fornire un’accezione dispregiativa al termine. –essa è, infatti, un accrescitivo, associato al senso di grossa, grossolana.

Basti pensare a parole come articolessa, sonettessa, parole che indicano rispettivamente un articolo e un sonetto di scarso valore.

Detto ciò, quindi, e appurato che non sia sbagliato usare tale variante, niente toglie al fatto che se una professora o un’avvocata voglia essere chiamata così, debba essere fatto.

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