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Pippo Fava e Piersanti Mattarella, valori e principi di chi ha combattuto la mafia

Catania, 5 gennaio 1984. Pippo Fava, direttore del giornale “I Siciliani”, ha da poco lasciato la sua redazione, sono circa le 21 e 30. Non ha neanche il tempo di scendere dalla sua Renault quando cinque proiettili lo raggiungono alla nuca uccidendolo. Il giornalista giace per terra in una pozza di sangue, freddato da quella mafia che, insita nelle strutture istituzionali e imprenditoriali del tempo, Fava denunciava quotidianamente.

Che sia stata la mafia ad uccidere il giornalista, scrittore, drammaturgo e saggista lo si è detto ufficialmente solo dopo. Attorno all’assassinio di Pippo Fava venne costruita un’irreale narrazione di un omicidio passionale. Le tesi fu portata avanti per molto tempo perfino da diverse istituzioni, al punto che non fu organizzata nessuna cerimonia pubblica, mentre il sindaco di allora della città etnea, Angelo Munzone, si affrettò ad escludere qualunque collegamento con il fenomeno mafioso che, a suo giudizio non esisteva nella sua amata città. Peccato che così non fosse!

L’operato di Fava lo smentiva e anzi mostrava da una parte le abilità del fenomeno mafioso nell’avvinghiarsi ai pilastri di una società, come le istituzioni e gli ambiti imprenditoriali, e dall’altra la debolezza di quegli organi che invece sarebbero dovuti essere i punti di riferimento per i cittadini. Come i polmoni devono eliminare l’anidride carbonica così taluni istituzioni avrebbero dovuto “purificare” una società che diventava sempre più vittima della criminalità e dei suoi disvalori.

È accaduto purtroppo che mafia e politica andassero nella stessa direzione. Lo sottolinea anche Nando dalla Chiesa nel suo libro “La convergenza”, denunciando una spaventosa alchimia tra la criminalità e tanti ambiti delle istituzioni del tempo. Ma se qualcuno ha tessuto la “convergenza”, altri l’hanno combattuta. L’ha fatto il padre dell’autore, il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, come anche Giovanni Falcone e Poalo Borsellino, lo hanno fatto però anche coloro che la verità l’hanno cercata pure fuori dalle aule di Tribunale. Se determinati pezzi della politica si univano nel perseguire interessi vicini o affini a quelli dei boss mafiosi, se alcuni giornalisti si sono piegati ai favori della criminalità, altri rappresentanti politici e altri cronisti hanno cercato di smascherare un sistema malsano del quale ancora oggi ne continuiamo a pagare purtroppo il “salatissimo conto”.

Chi nella gestione della res pubblica ha provato a contrastare le distorsioni di un sistema che avrebbe dovuto invece combattere la mafia è stato certamente Piersanti Mattarella. Presidente della Regione Sicilia ed esponente di spicco della corrente di Aldo Moro all’interno della Democrazia Cristiana (tanto da esserne considerato il suo “delfino”), veniva ucciso dalla mafia esattamente 44 anni fa.

Il 6 gennaio del 1980 Mattarella, insieme alla sua famiglia si dirigeva verso la chiesa per la consueta messa dell’Epifania. Un killer si affiancò alla sua auto e prima di dileguarsi nel nulla scaricò contro l’autovettura del Presidente siciliano più colpi possibili. In un primo momento esplose circa 5 o 6 colpi, successivamente si avvicinò ad un auto dalla quale un complice gli consegnò una seconda arma con la quale, una volta tornato in direzione dell’auto, sparò altre volte.
Quel giorno la fotografa palermitana Letizia Battaglia scatterà una delle foto più celebri e insieme dolorose della lotta alla mafia, un’istantanea che vedeva in quel momento la parte sana del Paese colpita nel più profondo del suo cuore. Il vetro del finestrino mandato in frantumi dai proiettili, la moglie Irma accanto disperata, il corpo di Piersanti Mattarella sostenuto dal fratello Sergio, con le gambe ancora distese sui sedili della sua Fiat 132. Un’immagine in bianco e nero di una Sicilia ferita e sporca di sangue.

“Se la politica vuole avere un valore sociale, per la crescita e il bene della società, deve avere una metodologia, una visione etica del lavoro politico, un lavoro quotidiano. Infaticabile, irreprensibile sui comportamenti e sugli obiettivi. Chi sta dalla parte giusta non perde mai”. In queste parole di Mattarella si rintraccia la visione del suo lavoro, i pilastri sui quali ha fondato il proprio modo di fare politico, il paradigma in base al quale ha declinato il suo operato. In esse spiccano il suo impegno e la sua determinazione nel far crescere la Sicilia e i siciliani.

Mattarella parlava di valori e bene della società, elementi che ha da sempre difeso dalla lunghe mani della criminalità, anche quando le stesse erano quelle che facilmente si potevano stringere nei corridoi dei palazzi del potere, principi che si rintracciano anche nel modo di fare giornalismo di Pippo Fava. Il giornalista, attraverso il suo lavoro e non solo, ha da sempre cercato di coltivare il seme della libertà e della verità, proprio nell’ottica di una Sicilia migliore, di una società fondata appunto su valori e non su disvalori o su ricatti.

Quando tornava nella sua Palazzolo, in cui era nato e che mai aveva effettivamente abbandonato, cercava di trasmettere ai più giovani un modo di pensare non solo sano ma capace di difendere la propria libertà. Ai ragazzi Pippo Fava chiedeva, quasi sfidandoli “A cosa serve vivere se non si ha il coraggio di lottare?” e lo faceva nell’ottica di lasciare un segno e spingere la comunità verso una direzione onesta e giusta. La sua era una missione, sia come individuo che come giornalista, la sua era una sfida sociale in cui quotidianamente riponeva impegno, passione e dedizione, non a caso egli ripeteva: Modificando i pensieri della gente, giorno dopo giorno, mese dopo mese, tu vai creando la pubblica opinione la quale rimugina, si commuove, s’incazza, si ribella, modifica se stessa e fatalmente modifica la società entro la quale vive. Nel meglio o nel peggio”.

Pippo Fava poneva grande attenzione ai pensieri che nutrono e costruiscono l’opinione pubblica, ribadendo indirettamente l’importanza sociale del ruolo del giornalista, assecondando nei fatti la richiesta che lo stesso Piersanti Mattarella riproponeva più volte: dare voce a chi vuole cambiare, “affinchè i nostri giovani non debbano rassegnarsi pensando che i mali della Sicilia siano invincibili”, mafia compresa. Pippo Fava e Piersanti Mattarella, due siciliani che col proprio lavoro e col proprio operato si impegnavano per la società del domani, per ripulire la stessa da ciò che la soffocava e che vedeva nell’onestà e nella libertà le minacce più grandi per la sua sopravvivenza.

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