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Real Madrid, la vertigine dell’Impero 

Un tempo era l’emblema della vittoria inevitabile. Oggi, cosa resta di quel Real Madrid? Un gigante che non cade, ma barcolla. E nella vertigine del dubbio, non riconosce più il proprio volto. 👇

📸 goal.com 📸

C’è un momento in cui anche gli imperi più solidi smettono di combattere per conquistare e iniziano a combattere per ricordare chi erano. Il Real Madrid non è in crisi solo per una serie di risultati, né per l’inevitabile ricambio generazionale. Il Real Madrid è in crisi perché non riconosce più il proprio riflesso nello specchio del presente

La sua è una crisi che non rumoreggia. Non urla. È una crisi che si insinua, che sfianca. Che logora dall’interno. È la vertigine che colpisce chi è sempre stato in cima, e improvvisamente si accorge che sotto non c’è più il vuoto, ma un esercito di squadre affamate, organizzate, spietate. È l’ansia del dominio che si sgretola un centimetro alla volta, è l’Impero che si guarda intorno e non capisce più se sta ancora regnando o solo recitando il proprio potere. 

Il Real non gioca male, non crolla. Ma fluttua. E questo, per un club che ha fatto della certezza granitica il proprio dogma, è molto più grave. Si ha quasi la sensazione che la squadra viva in apnea, come se ogni vittoria fosse una tregua, ma mai una rinascita. Una pausa fra due interrogativi, non una dichiarazione di forza. 

La maglia è pesante, lo è stata sempre. Ma ora sembra schiacciare più che ispirare. I giovani, per quanto promettenti, non reggono ancora il peso dell’eredità. I veterani, stanchi, si muovono con l’eleganza di chi conosce la liturgia ma non sente più il sacro. Il campo è pieno, ma il vuoto si sente lo stesso. Quel vuoto incolmabile lasciato dall’epica, che un tempo si respirava in ogni partita, in ogni recupero al 93′, in ogni rimonta impossibile. Oggi l’epica è silenziosa, smarrita, quasi in esilio. 

Carlo Ancelotti ha tenuto in piedi un tempio che scricchiolava. Lo ha fatto con intelligenza, mestiere, classe. Ma anche la sua calma da patriarca, che prima dava sicurezza, ora sembra un mormorio in una sala che chiede risposte a voce alta. Perché il problema non è la guida: è la direzione. Dove va questo Real? E, soprattutto, cosa vuole essere? 

Florentino Pérez, demiurgo di due epoche, oggi pare muoversi tra l’ossessione e la nostalgia. L’inseguimento ossessivo di Mbappé ha assunto i tratti di una telenovela stanca, in cui il desiderio si è consumato nella reiterazione. Il Real – quello vero, quello mitologico – non aspettava nessuno. Non bussava. Si faceva desiderare. Oggi invece aspetta, spera, tratta. Insegue, e questo, per un club che è stato sempre inseguito, è un segno più profondo di qualsiasi sconfitta. 

Il Bernabéu, intanto, si trasforma: si rinnova, si espande, si reinventa. Un monumento che prova a cambiare pelle senza perdere la gloria. Ma anche l’architettura ha il suo limite: può cambiare forma, non spirito. E il Real, oggi, sembra privo di spirito. Manca la fiamma. Manca la necessità. Come se ogni impresa, ogni trionfo, fosse già stato vissuto. Come se ogni trofeo fosse solo un’aggiunta a una collezione, e non più una necessità vitale. 

Nel frattempo, l’Europa evolve. Il City gioca come un orologio svizzero impazzito, il Bayern resiste, l’Arsenal ritorna, il Liverpool reinventa la fame. E il Real? È lì. Sempre lì. Ma senza urgenza. E senza urgenza, non c’è mito che resista. Perché il mito vive di necessità, di angoscia, di ferocia. Il Real, per sopravvivere, deve sentire di nuovo il bisogno. Non di vincere. Ma di dover vincere. Come se fosse una questione di identità. Di sopravvivenza. 

Non è una squadra che va rifatta. È un’immagine che va ricostruita. Un’idea che va riattivata. Servono leader che non abbiano paura del vuoto. Servono partite che non si dimentichino dopo due giorni, servono nemici, ostacoli, missioni. Il Real Madrid non è mai stato solo una somma di campioni. È sempre stato una narrazione. Un’ossessione. Una minaccia costante. Finché non tornerà a far paura, resterà solo una maglia bianca indossata da ottimi professionisti. 

E il calcio, che pure ama la gloria, sa essere spietato con chi smette di vibrare. Per questo, l’Impero oggi trema. Non perché è stato sconfitto, ma perché ha smarrito la sua fame. E senza fame, anche la più gloriosa delle dinastie diventa leggenda. E le leggende, si sa, commuovono. Ma non vincono più. 

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